A tutti è ormai tristemente noto il fenomeno della fuga di cervelli: ogni anno l’Italia perde una città grande come Lucca a causa di quest’ultimo.
Si tratta di 84000 cittadini appartenenti alla popolazione italiana tra i 25 e i 39 anni che emigrano all’estero ogni anno, il 31% di essi possiede una laurea in materie STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica). Il 75% di essi si trasferisce in altri paesi europei, mentre il 25% si divide tra Australia, USA e sud America. Il costo della fuga di cervelli per il nostro paese equivale a 14 miliardi (1% del PIL).
Risulta spontaneo chiedersi come mai questi giovani laureati decidano di abbandonare il proprio paese d’origine. La principale causa sta nel fatto che gli stipendi in Italia sono troppo bassi rispetto all’estero, inoltre la maggior parte dei laureati detiene una formazione superiore rispetto al lavoro svolto, senza contare che guadagnano poco più di chi ha un diploma.
Il fenomeno della globalizzazione rende possibile studiare ed avere esperienze lavorative in una nazione diversa dalla propria e questo permette di ampliare le proprie conoscenze e capacità professionali; molti fra i migliori studenti italiani, però, preferiscono poi non rientrare in patria poiché ritengono di non poter ricevere offerte lavorative adeguate agli studi conseguiti. In Italia, le condizioni lavorative non sono, in effetti, incentivanti: gli stipendi sono bassi anche per chi ha alle proprie spalle un percorso di studi eccellente e le possibilità di crearsi una carriera sono pochissime.
Le conseguenze di ciò si indovinano facilmente: per un paese con un tasso di natalità basso come il nostro, perdere giovani significa rinunciare al proprio futuro.
Per gli esperti di demografia è ormai chiaro che l’Italia sia nel pieno di un crescente calo demografico e con un tasso di invecchiamento della popolazione superiore alla media degli altri paesi europei. A fronte di questi dati sembra fondamentale che lo Stato si adoperi affinché quei pochi giovani restino in Italia e contribuiscano a porre le basi di un paese più equo e bilanciato in futuro.
La questione della “diaspora giovanile” non è affatto da considerare un problema del futuro, poiché comporterà ricadute immediate sulla nostra società.
Confindustria stima che una famiglia spenda circa 165.000 euro per crescere ed educare un figlio fino ai 25 anni, mentre lo Stato ne spende, a sua volta, 100.000 in scuola e università. A fronte dell’altissimo numero di espatri post laurea o diploma dei giovani italiani, si tratta di una perdita del capitale investito di decine di miliardi di cui beneficiano gli altri paesi.
I programmi specifici di contrasto al brain drain italiano non si sono fino ad oggi rivelati del tutto sufficienti a trattenere le giovani risorse che costituiscono la parte fondamentale del capitale umano su cui costruire il futuro.
Di conseguenza, moltissimi italiani specializzati si vedono costretti a trasferirsi in altri Paesi. Persino i giovani che non sono intenzionati a lasciare la propria terra, spesso non hanno altre opportunità se non quella di cercare lavoro altrove. Se è vero che il tasso di occupazione sta in generale aumentando, è altrettanto vero che la disoccupazione giovanile a dicembre è nuovamente arrivata al 40,1%; un laureato italiano su venti, a distanza di quattro anni dalla laurea, risiede all’estero (ISTAT, 2015) e sono circa 14.000 i laureati che ogni anno decidono di trasferirsi in un’altra nazione, con un tasso di emigrazione raddoppiato rispetto al 2011.
È anche vero che 500 mila laureati stranieri hanno scelto di vivere in Italia; nonostante questo possa sembrarci rassicurante, l’Italia è in realtà l’unico Paese europeo ad avere un saldo negativo fra ricercatori in uscita e in entrata: esso è infatti del -13%. Questi dati sono tutt’altro che rassicuranti e dovrebbero farci capire come il nostro Paese stia perdendo le menti più brillanti.